Gli anolini

18 Giugno 2012 Off Di Pastaria

Anolini, cappelletti e marubei: le ghiotte paste ripiene del Granducato.

di Oretta Zanini De Vita

Se si dovesse fare una graduatoria sulla “regalità” delle paste ripiene, un posto di tutto rispetto spetterebbe senz’altro all’anolino. Del suo antico albero genealogico possediamo oggi importanti documenti, perché le paste ripiene dovettero, specialmente durante il Rinascimento, e specialmente nell’area padana, solleticare la fantasia dei grandi cuochi di casata che nei tanti ripieni, oltre alla loro esperienza, rovesciarono la ricchezza delle spezie e di tutto quello che il territorio offriva alle loro cucine. Dove, naturalmente, non mancavano anche erbe che noi non usiamo quasi più, come l’enula, dalla quale molti studiosi han voluto far derivare l’attuale nome di questa pasta ripiena. “Annolino” lo chiama Bartolomeo Scappi che scrive la sua Opera alla fine del ‘500 e forse allora davvero doveva assomigliare ad un piccolo anello e infatti il grande chef, cuoco personale di papa Pio V, ci dice che questi «annolini» devono avere la dimensione di un piccolo fagiolo o di un cece e aggiunge: «congiunti con li loro pizzetti in modo che siano venuti a foggia di cappelletti».
Ma finalmente sarà un cuoco siciliano, tale Carlo Nascia, assunto verso la metà del XVII secolo alla corte dei Farnese a Parma, che ci darà di questa straordinaria pasta una ricetta davvero moderna soprattutto per la confezione dell’impasto che, dice, deve essere di sola farina e tuorli d’uovo e tirata sottilissima. Il ripieno a quel tempo era a base di rognonata e di midollo di manzo, con parmigiano (che allora era di Lodi) e uova. Poi, cotti in brodo, venivano serviti di guarnizione al cappone. Piatto ricco dunque che per le feste venivano anche confezionati nei conventi parmensi, le cui suore cuciniere usavano prepararli per il pranzo di capodanno.[hidepost]
Il formato dovette cambiare nei tempi e dal minuscolo anolino rinascimentale si passò a due dischetti sovrapposti al cui interno si racchiudeva il ripieno; il buon Artusi li confezionava molto grandi perché ci parla di un dischetto di 5 cm di diametro, senza dirci se dentellato o liscio che poi veniva chiuso più semplicemente a mezzaluna. È probabile che il bordo fosse liscio perché le nostre nonne e bisnonne, usavano di solito come tagliapasta un bicchierino da liquore e invece gli stampini tagliapasta utilizzati nel Granducato erano di legno di bosso e avevano il diametro delle dimensioni di uno scudo di argento corrente a Parma al tempo di Maria Luisa. Parma dunque è la terra di elezione di questa straordinaria pasta ripiena, connubio fra la cucina di corte e la successiva e ricca cucina borghese che ha saputo nel suo ripieno sfruttare e trasformare i prodotti di una terra la cui fertilità era nota già ai tempi della Roma antica se Strabone, il geografo greco che scrive sul finire del I sec. a.C. la descrive come «pianura assai fertile, sparsa di colline molto fruttifere, con derrate di ogni specie […] sicuro riparo dalle carestie». Tutta questa dovizia con il tempo si è riversata nel fantasioso e ghiotto ripieno, nonché nel brodo nel quale gli anolini vengono cotti. […]. La lettura integrale è riservata ai possessori della rivista. Abbonati subito per non perdere il prossimo numero [/hidepost]