Buone pratiche di lavorazione, uno sguardo sinottico
27 Aprile 2010L’articolo è un’introduzione alle buone pratiche di lavorazione, cui saranno dedicati diversi approfondimenti nei prossimi numeri di Pastaria.
di Giovanni Gozzi
La percezione che sia banale descrivere delle operazioni, che tutti le debbano saper fare, è all’origine dell’equivoco riguardante le “buone pratiche di lavorazione”, con cui si traduce l’acronimo GMP (Good manufacturing practice) di origine statunitense. L’agenzia governativa FDA (Food and drug administration), simile ma non eguale al nostro ministero della Salute, nel lontano 1967 (anche se pubblicate solo due anni dopo) definisce quelle che a tutt’oggi sono il cardine dei cosiddetti prerequisiti nell’industria alimentare. L’origine, a dire il vero, è dal settore farmaceutico, ma i principi che ci riguardano specificamente sono peculiari del settore agroalimentare. A distanza di più di un quarto di secolo anche il vecchio continente deve adattarsi a questo approccio, inserendo nei regolamenti del cosiddetto “pacchetto igiene” una versione rivolta alle aziende produttrici di alimenti. All’allegato II del regolamento 852/04 CE sono riportati in dodici capitoli i requisiti generali in materia di igiene per tutti gli operatori.
Dall’altra parte dell’oceano ci si aggiorna e si emettono le attuali current GMP (cGMP), da cui avremo molto da imparare e da copiare, senza essere responsabili di plagio: non perseguibili, quindi ma virtuosi.
La situazione europea
Il riferimento diretto per l’Italia, come facente parte della Comunità europea, è il Codex alimentarius. Ingarbugliando la terminologia, tanto per non avere mai delle certezze, la Commissione del Codex emette nel 1997 i principi generali per l’igiene alimentare. Non a caso gli albori del sistema HACCP sono proprio di quell’anno, in particolare con il decreto legislativo 155/97, in attuazione della direttiva 96/3/CE. In nuce si definiscono già in questo provvedimento le caratteristiche dei prerequisiti, come al solito nell’allegato. Nel 2004 viene pubblicato il regolamento citato in precedenza che modifica la filosofia del precedente provvedimento. Purtroppo tale cambiamento non è assolutamente ravvisato dagli organi di vigilanza. [hidepost] In sostanza se la norma del 1997 aveva ancora qualche legame con l’impronta sanzionatoria delle leggi preesistenti, per intenderci la legge 283/62 e il DPR 327/80, che sono alla base della legislazione alimentare nazionale, il nuovo impianto sarebbe dovuto essere soprattutto preventivo, riducendo le sanzioni a motivi effettivi, proporzionali e dissuasivi (art. 55 del regolamento 882/2004), ed efficaci aggiungerei. Invece, la giurisprudenza recente denota una strenua volontà di punire con severità anche infrazioni formali o molto dubbie, come permette l’applicazione del principio di precauzione interpretato in maniera solo punitiva, quando aveva lo scopo palese di proteggere da eventuali lacune scientifiche su fatti di estrema gravità. Valga per tutti l’esempio della vicenda “mucca pazza”, affrontata in carenza di cognizioni tecniche adeguate. In tutti gli altri casi si è trattato di un colpevole allarmismo, spesso catastrofico per le aziende implicate, come nella circostanza dell’influenza aviare (per di più denominata erroneamente influenza aviaria). In quest’ultimo caso si affrontava un non problema: la cottura, usuale per quel tipo di alimento, era ampiamente garantista per l’igiene del consumatore […]. La lettura integrale è riservata ai possessori della rivista. Abbonati subito per non perdere i prossimi numeri di Pastaria! [/hidepost]