Made in Italy, il valore di un brand
11 Ottobre 2012Il made in Italy agroalimentare nel mondo continua a registrare successi, soprattutto nei mercati classici. Il brand è ancora sinonimo di qualità e di gusto e rappresenta per consumatori ed addetti ai lavori ancora il meglio di ciò che si può reperire in ambito internazionale. Il nome del prodotto italiano però da solo non basta. Se è vero che apre una serie di possibilità uniche, è pur certo che la posizione sul mercato va comunque conquistata. Talvolta con fatica.
la Redazione
Sempre più marchi importanti del made in Italy passano in mano straniera. Sempre più prodotti della nostra cucina vengono realizzati fuori dal Bel Paese eppure il nome dell’Italia su certa tipologia di manufatti è ancora sinonimo di eccellenza in ambito internazionale. Insomma il brand regge quando si tratta di moda, arte, artigianato, ma soprattutto cibo. Nonostante la crisi non si rinuncia al made in Italy sulle tavole mondiali, il cui export raggiunge nel 2011 il suo massimo storico, oltrepassando, per la prima volta, quota 30 miliardi di euro con un valore di +8% rispetto al 2010 (dati Coldiretti). La curiosità di questi numeri è che, non solo a registrare un incremento delle esportazioni sono i cibi classici della produzione nostrana come vino, formaggi o salumi, ma soprattutto che i paesi di destinazione che più di altri hanno consumato tricolore l’anno scorso sono mercati classici e maturi come Germania, Francia, Regno Unito e USA, ma anche territori di recente conquista come la Cina. Insomma niente di nuovo all’orizzonte. L’agroalimentare nazionale continua a registrare successi pur senza modificare di molto la strategia. Sembra quasi che per vendere eccellenze nostrane agli stranieri, non siano necessari grandi sforzi, pur in un mercato globale e complesso dove la concorrenza è davvero spietata.
Non sarà un caso infatti se il fenomeno dell’Italian sounding (ovvero degli alimenti prodotti all’estero che evocano una origine italiana, ndr) è diventato ormai incontrollabile. Sei milioni di euro all’ora è il danno al fatturato del made in Italy agroalimentare stimato da Confagricoltura. Sembrare italiano senza esserlo con l’utilizzo di immagini, nomi e colori che evocano quelli nostrani, ma che nulla hanno a che fare con l’Italia è una prassi oltremodo diffusa. Un fenomeno delinquenziale ormai consolidato su cui imprese estere costruiscono la propria fortuna a danno della nostra economia.
In Europa il rapporto tra prodotti italiani originali venduti e cibi falsamente nazionali è addirittura di 2 ad 1. Questo fatto se da una parte preoccupa, dall’altra è quasi motivo d’orgoglio, ma soprattutto dovrebbe indurre ad una riflessione sui margini di ulteriore conquista della nostra economia. Gli spazi dell’Italian sounding sono una grossa fetta di mercato che sfugge ma che gli italiani dovrebbero riprendersi. Quel segmento di mercato è sostanzialmente già nostro ma al momento non siamo in grado di coglierne i frutti. Un’analisi di questo fenomeno segnala prima di tutto che l’Italia può davvero iniziare a crescere di nuovo solo se ritorna all’economia reale e riprende ad investire nelle proprie risorse, nel proprio territorio, nell’identità e nella cultura del cibo. L’agroalimentare nazionale dimostra ancora una volta di essere una formidabile e insostituibile leva economica per il paese. Forse quella leva in grado di traghettare la nazione fuori dalla crisi.
Non è però tutto semplice come sembra. Gli aspetti da considerare sono innumerevoli. Se da una parte infatti dobbiamo tornare ad utilizzare il più possibile il brand “Italia” come uno strumento di vendita, dall’altra sarebbe importante sfruttare l’occasione sino in fondo, facendo in modo che l’industria della trasformazione sia un vero volano per l’agricoltura. Premesso che il valore aggiunto del cibo italiano risiede soprattutto nella lavorazione, nella tradizione e nei saperi che si tramandano da secoli in ogni angolo dello Stivale, isole comprese, si è registrato negli ultimi anni un moto d’orgoglio di quanti ritengono – vuoi per tendenza del momento o per amore della patria – che il prodotto si possa considerare italiano solo se lo è dall’inizio alla fine. Sempre più spesso infatti incontriamo imprenditori che lavorano esclusivamente materia prima nazionale o addirittura regionale. La pasta non è esente da questo discorso, anzi è uno dei settori in cui è sempre più diffuso il ritorno alle cultivar di un tempo, seminate nei terreni della provincia. Per la pasta fresca ripiena il discorso è ancor più vasto, ma anche qui la musica pare essere sempre la stessa: carni, verdure, pesci, formaggi nella farcia, ma sempre locali e possibilmente a chilometri zero. [hidepost]
Questo non è solo un modo per vendere meglio il prodotto, ma anche per garantire un impatto economico di quelle produzioni che sia il più ampio possibile. Tra i produttori di pasta ne abbiamo incontrati diversi convinti che le semole provenienti da coltivazioni locali siano superiori a quelle estere sotto tanti aspetti. Molti produttori acquistano addirittura esclusivamente grani di determinate cultivar e stanno da tempo utilizzando l’accordo di filiera per garantirsi farine specifiche che rispondano a caratteristiche predefinite.
Uno di questi è Alfredo Ciccarelli, dell’omonimo pastificio di Montecassino che da qualche tempo a questa parte utilizza solo grano Cappelli. «Ci affidiamo da sempre ad un mulino di fiducia che, come noi, ha sposato la causa del prodotto locale.[…]. La lettura integrale è riservata ai possessori della rivista. Abbonati per non perdere i prossimi numeri [/hidepost]