La corretta gestione dei ritiri di alimenti in caso di crisi
9 Ottobre 2012Il caso di una azienda italiana che ha saputo gestire con efficacia e serietà una crisi alimentare, dall’allerta comunitaria sino al richiamo totale dei prodotti, privilegiando la tutela e la sicurezza dei consumatori.
di Lino Vicini
Un articolo pubblicato su Pastaria (Rintracciabilità e ritiri, la corsa ad ostacoli del produttore in Pastaria 27) ha affrontato il delicato tema della rintracciabilità e dei ritiri da parte dei produttori degli alimenti non conformi.
L’argomento merita un approfondimento, non solo al fine di illustrare le regole di diritto predisposte in materia dal legislatore comunitario, ma anche per motivi più concreti e pratici.
È dato di comune esperienza infatti, che i produttori, quindi anche i pastifici, devono essere in grado di gestire e governare nel migliore modo possibile una eventuale crisi che li coinvolga.
L’esperienza degli ultimi anni dimostra, infatti, come le situazioni di emergenza non rappresentano un evento remoto ed altamente improbabile, ma un inconveniente possibile, che anche il produttore più attento e preparato deve gestire nel modo migliore.
In questi casi, i responsabili delle aziende devono essere in grado di prendere decisioni in modo rapido, talvolta con l’adozione di provvedimenti urgenti che possono comportare in alcuni casi grandi sacrifici economici, come per esempio il ritiro di intere produzioni.
La predisposizione in azienda di unità di crisi, composta da un gruppo di esperti interni o collaudati professionisti esterni è il più delle volte essenziale al fine di evitare “il panico da emergenza”.
Allo stesso tempo fondamentale è la redazione, prima del verificarsi di problemi gravi, della strategia di gestione delle emergenze, che può risolvere in modo tempestivo e con minimo danno anche le situazioni più complesse e critiche.
Obblighi degli operatori
Ricordiamo che l’obbligo principale dei produttori di alimenti è garantire per i propri prodotti il rispetto delle disposizioni della legislazione alimentare, in particolare che non siano immessi in commercio alimenti a rischio.
A tal proposito, è noto, come gli alimenti sono considerati a rischio se dannosi per la salute o se inadatti al consumo umano (art. 14 del regolamento 178/2002).
La medesima norma prevede che, per determinare se un alimento sia inadatto al consumo umano, sia necessario prendere in considerazione se l’alimento sia inaccettabile per il consumo umano secondo l’uso previsto, in seguito a contaminazione dovuta a materiale estraneo o ad altri motivi, o in seguito a putrefazione, deterioramento o decomposizione.
Il comma 6 dell’articolo 14, sopra richiamato, prevede inoltre un principio molto importante.
Viene stabilito infatti che: «se un alimento a rischio fa parte di una partita, lotto o consegna di alimenti della stessa classe o descrizione, si presume che tutti gli alimenti contenuti in quella partita, lotto o consegna siano a rischio a meno che, a seguito di una valutazione approfondita, risulti infondato ritenere che il resto della partita, lotto o consegna sia a rischio».
Logico corollario di tale disposizione è l’articolo 19 dello stesso regolamento in tema di ritiro dei prodotti non conformi.
La norma prevede che: «se un operatore del settore alimentare ritiene o ha motivo di ritenere che un alimento da lui importato, prodotto, trasformato, lavorato o distribuito non sia conforme ai requisiti di sicurezza degli alimenti, e l’alimento non si trova più sotto il controllo immediato di tale operatore del settore alimentare, esso deve avviare immediatamente procedure per ritirarlo e informarne le autorità competenti».
A tali obblighi si aggiungono i doveri di comunicare ai consumatori dei motivi del ritiro così da raggiungere la trasparenza e tutela dei soggetti interessati dagli alimenti stessi.
Ritiri di alimenti, un caso reale: peperoncino con colorante Sudan in sugo pronto per condire pasta
Se queste sono le regole che gli operatori sono tenuti a rispettare, ci si deve domandare cosa può accadere in concreto quando si verifica una crisi alimentare e quali possono essere i comportamenti che gli stessi devono tenere.
A tal proposito, come detto, l’esperienza degli ultimi anni costituisce un ricco campionario di situazioni critiche a cui gli operatori possono attingere per analizzare le possibili implicazioni e soluzioni.
Per quanto interessa i lettori, la vicenda che ci accingiamo a riassumere riguarda una nota azienda emiliana, che nella primavera estate del 2003 ha gestito l’allerta Sudan.
Proprio nel mese di maggio del 2003 le autorità sanitarie francesi rinvennero del colorante Sudan in peperoncino indiano.
Ricordiamo che già in quel periodo tale sostanza non poteva essere utilizzata nelle derrate alimentari destinate all’uomo.
Immediatamente dopo la scoperta, il 9 maggio 2003, le autorità francesi, attraverso il cosiddetto “sistema rapido di allerta” per gli alimenti, notificarono alla Comunità europea l’individuazione del colorante non ammesso.
A seguito della procedura la Commissione CEE, con decisione del 20 giugno 2003, vietò l’importazione sul territorio comunitario di peperoncino e prodotti derivati.
Da segnalare come il sudan era classificata dall’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (LARC) nella categoria 3 delle sostanze cancerogene.
La colorazione illegale del prodotto indiano veniva ritenuta immediatamente dagli organi comunitari grave rischio per la salute, con conseguente dovere di distruzione delle partite adulterate di peperoncino e di prodotti derivati, al fine di evitarne l’introduzione nella catena umana.
Nel nostro paese gli organi di controllo accertarono che l’alimento contaminato era utilizzato come ingrediente da molte aziende tra cui quella di cui ci stiamo occupando.
In particolare, durante i primi controlli si accertò che i sughi pronti per condire pasta del tipo «all’arrabbiata» e «pesto calabrese» del produttore emiliano qui in esame contenevano peperoncino indiano contaminato.
L’aggiunta volontaria di colorante rosso ad un prodotto già tale in natura appariva effettivamente inspiegabile e non giustificabile.
Unica spiegazione di tale comportamento la perversa e criminale volontà di offrire un prodotto non soggetto al naturale ingiallimento del peperoncino in polvere cagionato dal tempo, anche a costo di utilizzare una sostanza illegale per mantenere il colore brillante.
La individuazione del colorante all’interno degli alimenti appariva da subito piuttosto difficoltosa per svariate ragioni.
Nessuno, infatti anteriormente allo scoppio della crisi, aveva mai ricercato la sostanza nei prodotti alimentari, non essendo questo un prodotto utilizzabile né utilizzato.
Gli operatori furono costretti ad operare in assenza di protocolli di ricerca della sostanza ed in assenza di pacifici e condivisi metodi analitici.
Gli stessi laboratori pubblici delle AUSL e dell’ARPA, disseminati sul territorio nazionale e l’Istituto superiore di Sanità, si trovarono quindi nella difficile situazione di mettere a punto sistemi di analisi per ricercare la sostanza sino a quel momento inesistenti.
In questa situazione di emergenza in più occasioni furono segnalate contaminazioni di prodotti successivamente risultate non colorate da Sudan in successivi esami.
A rendere più complessa la vicenda la circostanza che il peperoncino è utilizzato normalmente in modestissime quantità o diluito all’interno di altri ingredienti, come ad esempio nei sughi dove rappresenta circa meno dell’1% del prodotto.
Tutte queste circostanze chiaramente aumentavano in modo esponenziale le difficoltà di ricerca del contaminante. [hidepost]
Gli stessi organi comunitari come gli operatori si trovarono in evidenti difficoltà: in un primo momento era stato vietato solamente l’utilizzo del peperoncino, mentre la Commissione non aveva chiarito se i prodotti derivati, contenenti tale sostanza, anche a livelli modesti, dovessero essere ritenuti comunque pericolosi per la salute pubblica.
Infine gli operatori si trovarono di fronte anche alla difficoltà rappresenta dalla mancanza di un sistema di tracciabilità del peperoncino.
Infatti tale ingrediente ritenuto, fino a quel momento componente minore nella lista delle materie prime utilizzate nei prodotti alimentari, di fatto non era mai valutato e considerato fattore di rischio e di criticità.
La politica dell’azienda: il ritiro di tutte le confezioni di sugo pronto
Per valutare i tempi di reazione della società presa in considerazione ricostruiamo cronologicamente gli avvenimenti a partire dalla produzione dei sughi pronti nel mese di aprile 2003 […]. La lettura integrale è riservata ai possessori della rivista. Abbonati subito per non perdere il prossimo numero [/hidepost]