Studi di settore, il parere degli artigiani
27 Settembre 2011Lo strumento degli studi di settore per l’accertamento fiscale è noto a tutti i produttori di pasta. Non sempre, però, sembra tenere conto delle specificità delle diverse realtà imprenditoriali, che, proprio per questo, non di rado risultanono non congrue. Abbiamo sentito il parere di alcuni produttori artigiani.
di Maria Antonietta Dessì
Secondo il rapporto sulla fiscalità 2008 dell’OCSE, nell’Unione Europea a 15, la pressione fiscale varia dal 32,2% dell’Irlanda al 48,9% della Danimarca. In questa speciale classifica del prelievo fiscale l’Italia si colloca al quinto posto con il 43,3%. Tuttavia secondo alcune autorevoli voci, la pressione fiscale non dovrebbe essere calcolata solo in base a tasse ed imposte, ma andrebbe considerato anche quanto il cittadino ottiene in cambio. Pertanto, se l’insieme e la qualità dei servizi pubblici è inferiore a ciò che viene pagato da imprese e cittadini, la pressione fiscale vera e percepita risulta molto più alta rispetto al dato ufficiale. In Italia, quindi si passerebbe da una pressione del 43% al 51% (ufficio studi di Confcommercio e ufficio studi Confindustria). I paesi virtuosi sarebbero quelli nei quali l’indice di performance del settore pubblico è superiore a quanto pagato dai contribuenti. è quello che succede per esempio in Giappone, in Danimarca, in Austria, in Svezia. Tenendo conto di questi elementi, l’Italia sarebbe il paese con la pressione fiscale effettiva più alta tra i paesi industrializzati, l’unico ad andare oltre il 50%. Alcuni sostengono che si tratti di un calcolo discutibile. Però l’effetto pratico è presto dato: se il cittadino paga per la sanità pubblica ma poi di fatto l’ospedale più vicino non funziona o funziona male, si è costretti a rivolgersi al privato pagando il servizio.
In questo scenario inquietante, rappresentato da una pressione fiscale senza pari, il disappunto dei contribuenti spesso prevale sul senso civico. Pagare le imposte è sempre un momento difficile sia per le aziende che per i cittadini, però appare ancor più faticoso se lo stato dà poco o niente in cambio. Anche per questo forse, quel senso di partecipazione economica al bilancio pubblico viene avvertito sempre più come un obbligo e non come un semplice onere.
L’amministrazione fiscale nel contempo utilizza strumenti di ogni genere per riscuotere i crediti e per verificare la veridicità dei redditi dichiarati. I metodi per definire quanto dovuto da cittadini ed imprese sono diversi e spesso molto complessi. In questo contesto articolato e multiforme compaiono gli studi di settore, già da alcuni decenni colonne portanti del nostro sistema tributario.
Si tratta di uno strumento ormai datato, essendo stato introdotto nel nostro ordinamento nel 1993, momento dal quale ha anche subito una serie di importanti modifiche. Gli studi di settore sono stati concepiti con l’obiettivo di basare su elementi di certezza, di trasparenza e di perequazione il prelievo fiscale e con un’ottica di accertamento nei confronti delle piccole imprese e dei professionisti. L’obiettivo era ed è tuttora quello di determinare i ricavi presumibilmente realizzati, applicando una seri di parametri di valutazione. Consentono, per maggior precisione, di determinare gli introiti che con massima probabilità possono essere attribuiti al contribuente, individuando per alcuni soggetti (imprese in testa) la capacità potenziale, ma anche altri fattori interni ed esterni relativi all’attività che potrebbero generare una limitazione della capacità stessa.
Sono pertanto elaborati attraverso la raccolta di dati contabili ed extracontabili, sia di carattere fiscale che di tipo “strutturale” relativi all’attività e al contesto economico in cui opera il contribuente e rappresentano, al tempo stesso, una procedura di calcolo su base statistica per la ricostruzione induttiva dei ricavi e dei compensi. Vengono realizzati rilevando per ogni singola attività, relazioni esistenti tra le variabili costanti e quelle strutturali, sia interne che esterne all’azienda. Nel corso degli anni, infatti – e anche a questo sono dovute le numerose modifiche apportate allo strumento – l’amministrazione fiscale si è resa conto che la capacità di produrre ricavi o conseguire compensi, anche all’interno di attività identiche, può cambiare notevolmente al variare degli elementi strutturali, del mercato di riferimento o della localizzazione territoriale.
Tuttavia, qualora un’impresa avesse caratteristiche talmente anomale da non rispecchiarsi minimamente nei parametri indicati dagli studi di settore, questo strumento potrebbe diventare una vera e propria spada di Damocle pronta a cadere sulla testa degli imprenditori interessati. Perché i parametri indicati sono in realtà di riferimento ma uno scostamento è il presupposto per l’accertamento analitico-induttivo che implica una serie di controlli e verifiche da parte dell’amministrazione finanziaria. Con tutte le conseguenze del caso in termini pratici. Ergo: la cosa migliore è stare sempre nei parametri di quanto indicato dagli studi di settore. Perché in alternativa sono problemi.
Troviamo subito un esempio pratico che fa al caso nostro. Giovanni Fabbri è titolare di un pastificio […]. La lettura integrale è riservata ai possessori della rivista. Abbonati per non perdere i prossimi numeri