Polenta e maccheroni

Polenta e maccheroni

4 Settembre 2007 0 Di Pastaria

È dedicato a polenta e maccheroni il primo articolo sulla cultura e sulla storia delle paste alimentari. Nei prossimi numeri, Oretta Zanini De Vita, storica della gastronomia, ci condurrà in uno straordinario viaggio lungo la penisola alla scoperta dei più singolari e straordinari formati di pasta che l’estro e l’abilità degli italiani hanno saputo creare.

di Oretta Zanini De Vita

Il vento della rivoluzione francese investe, tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800 un Europa in piena ripresa demografica: gli storici sono concordi nell’attribuire questa ripresa alla rivoluzione alimentare che, a partire dalla metà del ‘700, si espande dall’Europa del nord verso il Mediterraneo, attraversando l’Inghilterra, la Germania, la Francia per arrivare in Italia. Questa rivoluzione alimentare che fece migliorare notevolmente la poverissima alimentazione delle popolazioni rurali, ebbe fra le sue concause, oltre all’evoluzione tecnologica, ad una più attenta e scientifica rotazione delle colture, ad una maggiore estensione delle terre coltivate, specie nel sud-Italia, anche gli investimenti dei capitali borghesi, nuovi padroni del latifondo, che intravedono cospicui guadagni dallo sfruttamento intensivo del terreno coltivato a grano, riso o prodotti zootecnici. Il potenziamento dei trasporti e della rete viaria consente infatti di avviare in tempi relativamente brevi i propri prodotti agricoli dalle a buon rendimento ai mercati di consumo in aree anche lontane.
Ma la causa principale della rivoluzione alimentare e per conseguenza di quella demografica, è concordemente da attribuire alla diffusione del mais. Questo cereale, giunto in Europa dal sud-America a seguito dei Conquistadores spagnoli, era rimasto per due secoli confinato negli orti botanici a disposizione degli studiosi, e più che altro guardato con curiosità (proprio come avveniva per il pomodoro). Ma a partire dalla seconda metà del ‘700 la sua coltivazione si diffonde nella Valle Padana, scalzando prepotentemente la produzione tradizionale di graminacee povere come la veccia, il miglio e la segale. A partire dall’800 il mais domina incontrastato le campagne del Nord, occupando anche parte delle Marche, dell’Umbria e della Toscana fino quasi ad arrivare alle porte di Roma. E la polenta sulle tavole poverissime costituisce un salto, non certo qualitativo, ma sicuramente quantitativo cospicuo per la bocca sempre affamata del contadino, fino a diventare l’unica fonte alimentare in larghe zone specie del Veneto e della Lombardia.

Il colono, ma soprattutto il nuovo proprietario terriero, con l’occhio alla possibilità di trarre maggior profitto dalla produzione agricola, coltiva sempre più riso o grano da avviare al commercio, mentre contemporaneamente aree sempre più estese vengono destinate alla coltura del granoturco, che serve anche per pagare la manodopera bracciantile. Il fittavolo, dal canto suo, riserva zone sempre maggiori alla coltura di questo cereale anche per poter pagare i canoni di affitto dei fondi rustici, sempre più gravosi. E così, piano piano, ad una denutrizione endemica ma più variata si sostituì una malnutrizione dovuta al monofagismo maidico.

Lo squilibrato apporto di amidi, grassi e proteine, che la scienza medica non era ancora riuscita ad individuare, produsse danni irreversibili al sistema nervoso, che il linguaggio popolare chiamò “mal della miseria”: verso la primavera la pelle cominciava a squamarsi e ad aggrinzirsi: erano i primi sintomi della pellagra (da pelle agra, arricciata), cui seguivano disturbi dell’apparato gastrointestinale, fino al delirio, alle allucinazioni e alla demenza finale. Come a dire che si impazziva per la fame. Che questo flagello fosse legato alla povertà dell’alimentazione maidica fu subito chiaro, anche se si dovette attendere l’inizio del Novecento per stabilire che il mais era totalmente privo di quella vitamina PP (così detta dalle prime lettere della locuzione inglese «pellagra preventing», ossia «che previene la pellagra») indispensabile all’organismo umano.

Alla metà dell’800 la pellagra è una malattia sociale che colpisce, nel Veneto e in Lombardia, il 3-3,20% del bracciantato agricolo, mentre si arrestò sotto le mura dei centri urbani dove, seppur diffusissima, la polenta trovò presso i poveri un contorno di verdure e molto raramente di grassi animali, assenti pressoché totalmente dall’alimentazione delle campagne. Una statistica condotta nel Lombardo Veneto in quel periodo dal Governo austriaco rileva che l’apporto proteico animale pro capite nelle campagne era di pochi grammi al giorno. La pellagra, endemica nelle campagne del nord-Italia fino alla prima guerra mondiale, regredì da sola con le migliorate condizioni alimentari della popolazione.

E nel Sud? Nel sud c’era un’altra Italia, dove il mais attecchì molto marginalmente. Qui le terre rimaste in mano ai baroni latifondisti non ebbero l’apporto dei capitali della borghesia rurale – totalmente assente – e si seguitò a coltivare pochi anche se ottimi grani, buon olio, con tassi di incremento della produzione non molto rilevanti, dovuti essenzialmente al recupero di terreni agricoli ottenuto con disboscamenti selvaggi, causa di quei dissesti idrogeologici di cui ancora oggi il Sud paga le conseguenze.

Qui tuttavia, già a partire dal secolo XVII si era diffuso ed era progressivamente aumentato l’uso delle paste alimentari. E nel momento del boom demografico verso la metà del ‘700 il napoletano poteva consumare quotidianamente il suo piatto di maccheroni conditi con il cacio e più tardi anche con il pomodoro. Un apporto di proteine vegetali non mancò mai al lazzaro del Sud, che poteva cibarsi di prodotti orticoli, soprattutto cavoli, che le fertili terre producevano copiosi. Ma il boom demografico che concentrò nell’800 a Napoli 441 mila abitanti, facendone la capitale più popolosa d’Europa, portò comunque ad un impoverimento dal punto di vista dietetico e il napoletano si andò via via trasformando sempre più da “mangiafoglie” a “mangiamaccheroni”. I viaggiatori del momento, ma anche i pittori, sono ricchi di immagini riferite al consumo dei maccheroni cucinati all’angolo delle strade e abilmente mangiati con le mani. Goethe nel suo Viaggio in Italia racconta che i maccheroni «si trovano dappertutto e per pochi soldi, si cuociono perloppiù nell’acqua e vi si grattugia sopra il formaggio che serve ad un tempo da grasso e da condimento». Lo stesso paesaggio collinare si era andato punteggiando di piccoli mulini, molte sulle rive del Sarno, le cui acque particolari erano universalmente conosciute come ottime per la confezione della pasta. L’avvento degli “ingegni” meccanici facilitarono velocizzandoli gli impasti di acqua e farina, mentre le nuove e numerose trafile permisero il moltiplicarsi dei formati. Il lavoro del maccheronaio si fece affannosamente più veloce e i lunghi e tortuosi tratturi che conducevano nella grande e popolosa capitale del Regno erano percorsi quotidianamente da una lunga processione di muli il cui basto era stato caricato di enormi ceste piene di pasta accuratamente seccata al sole.

La pasta, in questo momento, risale con fatica le strade verso le aree del mais, del riso e delle patate; la si confeziona con farina di grano tenero, ma nelle aree depresse anche con quella di castagne o con il grano saraceno mentre il condimento è sempre più spesso costituito da burro o grasso animale. Per tutto il sec XIX la dieta dell’alimentazione rurale, a differenza dei ceti cittadini, del sud è costituita oltre che dalla patata, soprattutto dal pane bagnato nell’acqua salata con l’aggiunta di vegetali come il pomodoro e condita con olio di oliva. La pasta è riservata alle festività importanti. Paradossalmente è proprio nell’endemica penuria di cibo del contadino, sia del nord che del sud, nella sua continua faticosa, ma intelligente e fantasiosa ricerca di “qualcosa” con cui impreziosire e condire polenta o maccheroni, che affondano le radici della nostra grande cucina popolare, base di una cultura gastronomica fra le più raffinate ed apprezzate nel mondo.

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